C’era il mare, una manciata di notti fa. Del
resto c’è sempre il mare, quando ti sogno.
C’era il mare e noi eravamo nell’atrio
di un grande edificio di legno e mattoni, in cima ad un’isola. Eravamo lì per
lo spettacolo teatrale che i tuoi vecchi studenti tenevano per la fine del
liceo. Erano tutti cresciuti e tu li salutavi con grandi sorrisi e lacrime
gioiose. C’erano persino dei miei insegnanti delle superiori. Tutti mi
stringevano le mani e mi sorridevano, e sorridevano anche a te e ti lasciavano
passare tra loro: scansandosi gentilmente. Aspettavi un bambino.
La mattina dopo lo spettacolo,
l’edificio era un centro termale: ti ci avevo portato in vista del parto. E
mentre uscivamo all’aperto, guidati dal medico capo a visitare l’isola, il mare
attorno disegnava le più belle insenature che si potessero immaginare: già
sognavo di saltarci dentro. Ora però non potevo: Dopo il parto, dicevo, mentre il medico capo mi trascinava più in là, seguendoti.
E il mare intanto si gonfiava:
sbatteva forte contro gli scogli, colorandosi di quel blu che è un po’ grigio e
un po’ verde, di quando il mare si colora di scuro ma è tanto bello che
vorresti tuffartici dentro e disperderti con le onde: bianche, segnate e piene
di schiuma. Tu eri dolcissima, lenta, con una bella pancia tonda. E tutti ti
salutavano e sorridevano e tu con loro. E camminavi, un po’ tra le onde, un po’
sulle passerelle.
Mentre io mi preoccupavo solo che
il mare non ti portasse via, e di trovare il posto giusto dove avrei fatto i
tuffi, dopo.
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